Pesca nel Mar Mediterraneo

Ormai pare che sia diventata una prassi consolidata: limitare lo sviluppo dell’economia nei paesi dell’Unione Europea e consentendo (e a volte anche finanziando) la coltivazione degli stessi prodotti in altri paesi extra UE. Prima è stata la volta del grano. Poi è stato il latte (con le famose “quote latte”). A seguire, l’olio d’oliva, limitato e vincolato in Italia e in molti paesi produttori, ma acquistato dai paesi extracomunitari (molti dei quali, per assurdo, beneficiari di lauti finanziamenti da parte dell’Unione proprio per produrre olio d’oliva!). Quindi è stata la volta delle vongole: è stata vietata la coltivazione di questi mitili “al di sotto di una certa dimensione”, dimenticando che le specie allevate nel Mediterraneo non superano quella misura anche da adulte (al contrario, le specie allevate e pescate nei mari del Nord sono ben più grandi).

Pesca nel Mar MediterraneoOra è la volta del pesce spada. Recentemente, durante una riunione del Consiglio dei ministri dell’agricoltura e pesca Ue in Lussemburgo, il Commissario europeo per l’ambiente e gli affari marittimi, Karmenu Vella, ha presentato “una proposta per l’introduzione e la progressiva riduzione di un totale ammissibile di catture (TAC) del pesce spada nel Mediterraneo, in linea con le conoscenze scientifiche”. “Il pesce spada del Mediterraneo è un caso urgente – ha detto Vella in una lettera riportata anche dall’ANSA – in cui la drammatica situazione dello stock richiede un’azione correttiva immediata”. http://www.ansa.it/canale_terraegusto/notizie/dal_mare/2016/10/10/ue-propone-quote-per-catture-pesce-spada-mediterraneo_2c6c728f-cdb4-45c8-a730-e09eff5e5b5f.html

Se da un lato è vero che pesca illegale ed eccessivo sfruttamento degli stock ittici hanno prodotto gravi danni all’ecosistema (oltre il 75% delle riserve ittiche globali è sovra-sfruttato), è anche vero che questo problema non riguarda solo il pesce spada e certamente non soltanto il Mediterraneo.

La pesca

E la situazione è ancora peggiore nelle acque dell’Unione Europea dove questa percentuale sale all’88%. È vero che specie come lo squalo, il tonno ed il pesce spada sono a rischio ma è anche vero che adottare limitazioni come quella proposta nei giorni scorsi non risolverà il problema. Se da un lato, infatti, potrebbe addirittura avere effetti negativi per l’economia (favorendo la pesca di frodo), dall’altro i benefici per l’ecosistema saranno (nella migliore delle ipotesi) scarsi: già oggi la flotta europea supera di due o tre volte il prelievo tollerabile dal mare, e spesso le grandi navi da pesca hanno bypassato i limiti imposti andando a pescare in alto mare o vicino alle coste africane o nell’oceano, lontane da limitazioni e controlli internazionali. Una ricerca di qualche anno fa ha monitorato lo spostamento dei grandi pescherecci europei in acque esterne a quelle dell’Unione, e in particolare nei mari al largo della costa occidentale africana, nelle acque di Mauritania o del Senegal. In questi paesi la maggior parte dei grandi pescherecci rilevati dall’associazione ambientalista erano di origine straniera e di questi, più della metà proveniente da Paesi UE. La pesca nei paesi nord africani infatti è consentita da accordi come i Fisheries Partnership Agreements (FPA). In base a questi trattati, le grandi navi da pesca dell’UE possono attraversare tutto il Mediterraneo e andare a pescare nelle acque territoriali di nazioni africane come Capo Verde, Costa d’Avorio, Gabon, Guinea, Guinea-Bissau, Mauritania e São Tomé e Príncipe (fino al 2006 anche in Senegal). http://ec.europa.eu/fisheries/cfp/international/agreements_en

Imporre limitazioni come quella proposta dal commissario europeo Vella non risolverà il problema delle risorse marine. In compenso potrebbe causare enormi danni alle comunità locali e all’intero ecosistema del Mediterraneo.

A danneggiare maggiormente l’ambiente e a causare la riduzione delle riserve di pesce spada nel Mediterraneo non sono certo le motobarche con la tipica “passerella” sporgente dalla prua spesso a conduzione familiare che operano a poca distanza dalla costa dell’Italia (nel mare l’area dello Stretto di Messina) o della Grecia. A causare i danni maggiori, sono le grandi navi spesso di proprietà di armatori del Nord Europa o extraeuropei che vanno a depauperare senza sosta (e senza alcun vincolo da rispettare) le acque del Nord Africa.

Ma non basta: la pesca quasi “artigianale” non è quasi mai responsabile di catture accidentali. Al contrario, la pesca con il palangaro o palamito fatta dalle imbarcazioni più grandi è causa di numerose catture non volute che a volte riguardano specie minacciate o in pericolo (dagli squali alle tartarughe fino ad alcune specie di uccelli di mare).

Senza contare che, delle 900mila tonnellate di pesce (per un ricavo di oltre un miliardo di euro) venduto in Italia, solo una minima percentuale è pescato intorno alle coste del paese. Circa 231mila tonnellate sono pescate nel mare italiano, il resto non è un prodotto “nostrano”. Spesso questo alimento non è “tracciabile” (ossia non si sa dove sia stato pescato e le condizioni delle acque dove è avvenuta la pesca). Ma, soprattutto, al contrario di quanto avviene con il pesce pescato dai piccoli gruppi di pescatori locali, si tratta di pesce che viene venduto per quello che non è. Non è raro ad esempio che venga spacciato per “filetto di cernia” qualche pezzo di pangasio pescato nel Mekong. Oppure il polpo che spesso viene dal Vietnam. Per non parlare del “merluzzo fresco”: più volte i nuclei anti-sofisticazione, i Nas, hanno scoperto che si trattava di pollak. Anche il pesce spada non è immune da questo fenomeno: ai clienti meno esperti a volte capita di vedersi propinare squalo smeriglio o di verdesca.

Per tutti questi motivi la decisione si imporre le “quote pesce” non risolveranno il problema delle risorse ittiche del Mar Mediterraneo: serviranno solo a peggiorare la crisi in cui versa l’economia di paesi già in crisi come la Spagna, la Grecia e, ovviamente, l’Italia.

C.Alessandro Mauceri

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